Adarve..., n.º 1 (2006)                                                                                                                               Pág. 69

Flavia GHERARDI

 

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e alla rinascita finali.

      Il recipiente-teschio, come si vede, viene subito rimpiazzato da nuovi simboli: la bocca di un pozzo, sulla quale si posa, presago funesto, il corvo divoratore di carogne; e, come suo complemento, un «cuenco», sorta di graal, anch’esso simbolo dell’attesa di un ‘affidamento definitivo’ (alle mani de «su alfarero»). Ma la serie di cambi continua. Si osservi ancora la mise en place e si consideri la geografia di quest’io dell’ ‘abisso’ (al quale sembra fare da contrappunto l’‘universo’ del penultimo verso che, come quello, è quasi un non–spazio). Vale la pena indugiare su questa componente di luogo fisico che in qualche modo condiziona dall’inizio alla fine la creazione del poeta jiennense. L’impressione è che tutta la composizione sia sospesa, sin dall’inizio, alla questione della definizione (il «donde habitarme») e al popolamento (il «poblar la lejanía») di uno spazio: come già detto, c’è un procedimento di specificazione progressiva che va dal «zaguán» all’ «umbral» alla «entrada», tutte zone, come si può notare, liminari e di preaccesso, di disimpegno o di passaggio. Spazi–soglia, vale a dire, che implicano al loro interno la componente della ‘migrazione’ verso, o meglio, del ‘trapasso’ dell’io visitante da una a un’altra dimensione. Eppure, nonostante l’impressione che esso sia sottoposto a una sorta di coazione al movimento, qualcosa interviene ad arrestarne il cammino e tutto sembra compiersi ed esaurirsi (o interrompersi) improvvisamente in questo punto preciso. Il riferimento è ai versi che chiudono la sequenza, alla scena finale del trittico. La sorpresa arriva all’imboccatura dell’abisso: l’antitesi fra il «te despido» del verso 3 e «a la entrada» inseguita in enjambement al verso successivo crea un corto circuito; chi «despide» chi? Si può agevolmente riconoscere l’azione di uno sdoppiamento. È la parte vitale del sé ad essere licenziata, l’io essendo ridotto alla sua consistenza spettrale. Nello spazio della «cueva» allo spettro viene mostrato lo spettacolo della consunzione del corpo ad opera dei raggi del sole, la mutilazione procurata dalla «oruga» divoratrice: è la cruda anatomia, è la cenere, il teschio, è la sdentatura di un volto (ormai) Idiota, inutilmente rivolto a un cielo che, adiaforo, ne ha per sempre decretato l’Assenza. Era questa, viene da chiedersi, la rivelazione promessa dall’oracolo? La condizione della sepoltura dell’ombra trasmigrata nascondeva dietro di sé l’esperienza di paradossale autometempsicosi per cui l’io avrebbe appreso di essere egli stesso l’insepolto, la discesa all’abisso del quale corrisponde alla sua stessa sepoltura.

(Continúa en la página 70)