Adarve..., n.º 1 (2006)                                                                                                                               Pág. 67

Flavia GHERARDI

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senso compiuto che, non mantenendo vincoli sintattici con i versi restanti, potrebbe sopravvivere anche isolato dalla strofe e valere semanticamente ‘di per sé’.

      Fuori dall’area appena descritta, riservata all’autoaffermazione (è la zona della prima persona: «me doy… soy»), lo spazio poetico si apre ad accogliere finalmente il ‘tu’ che gli corrisponde. È un ‘tu’ anch’esso oracolare: è difatti una voce, la voce che chiama («me has llamado»); è la voce, suggerisce il verso successivo («donde te escribo»), dello ‘scriba’, di colui che è deputato a trascrivere i nomi di coloro che sono designati al trapasso: l’io si fonde e si confonde con lo scriba, forgia l’argilla come tavola a cui consegnare il proprio nome e, con esso, il suo epitaffio. O, in alternativa, lo comporrà su una pergamena, che sarà pergamena di mare, perché l’immagine della creazione, ci testimonia tutta la produzione del poeta, è il raggio di sole che si riverbera, fecondandolo, sullo specchio d’acqua. E perché, inoltre, le increspature delle onde sono il simbolo del movimento che traghetta l’io nel suo viaggio ultramondano (e anche di ritorno alla vita: le acque del fiume Lete, si ricorderà, sono deputate al trasporto dalle tenebre alla luce), oltre al fatto che l’eroe navigante attraversa le acque dello spazio ‘infinito’ e ‘vuoto’, sede della vertigine, prima di pervenire allo spazio limite e di contrappunto del «lugar de las sombras, del sueño y de la noche adormecedora» (Eneida, VI). L’io va così in contro alla sua doxa, chissà se edotto di quel monito (o anche memento) che pare tradotto in simbolo dalla forca sospesa all’ala di un mulino.

      La scena successiva offerta dal «Retablo» al lettore–spettatore è quella della prova a cui viene condizionato il compimento della ‘visita’. Odisseo redivivo, ci si chiede, il nostro io dovrà anch’egli seppellire il corpo di un insepolto prima di potersi portare all’incontro di Tiresia e conoscere così il proprio destino?. Il luogo è lo stesso: le soglie dell’Averno o dell’Ade. Vi si giunge precipitando («precipité de torre», v. 1), è una rapida discesa, è una «caída» il cui ritmo viene scandito da endecasillabi sciolti di pregevole fattura, gli accenti e le pause all’interno dei quali si fanno ora più serrati, mentre all’adozione di qualche enjambement è affidata l’intessitura della continuità esplicativa degli accadimenti. Nella fase che prelude alla tenebra l’eroe incantato riconosce intorno a sé i morti in attesa di sepoltura; ma, più prodigioso ancora, riconosce se stesso come «sombra» («nudo de sombra soy», v. 7): egli stesso è l’insepolto, egli l’Elpénor al quale non resta che pronunciare l’invocazione

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